#iorestoacasa con Wonder! – Raffaello Sanzio, il “divin pittore”

#iorestoacasa con Wonder! – Raffaello Sanzio, il “divin pittore”

Raffaello Sanzio, il “divin pittore”

a 500 anni dalla morte del maestro del Rinascimento

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In occasione dei 500 anni dalla morte di Raffaello ci uniamo anche noi nelle celebrazioni del grande maestro del Rinascimento italiano. In questa settimana faremo insieme un viaggio virtuale in giro per l’Italia alla scoperta dei capolavori del maestro di Urbino. La carriera artistica di Raffaello è come una cometa, estremamente breve, a causa della sua morte precoce a soli 37 anni, ma in grado di illuminare di una luce nuova tutta l’arte italiana, che dalla sua produzione e dal suo genio.  sarà segnata in maniera indelebile.

Vasari scrive nelle sue Vite “in Raffaello chiarissimamente risplendevano tutte le egregie virtù dello animo, accompagnate da tanta grazia, studio, bellezza, modestia e costumi buoni. Per il che può dirsi che i possessori delle dote di Raffaello, non sono uomini semplicemente, ma dèi mortali.”

Raffaello nasce ad Urbino il 6 aprile 1483, era Venerdì santo come ci ricorda Giorgio Vasari.  Cresce alla raffinata e culturalmente stimolante corte del duca Federico da Montefeltro. Il duca voleva rendere Urbino una moderna capitale europea ed aveva per questo chiamato alla sua corte letterati e artisti. Il padre di Raffaello, Giovanni Santi, anche lui pittore, riconosce subito il talento straordinario del figlio e decide di mandarlo a bottega da un grande maestro, Pietro Perugino.

Qui il giovane Raffaello, a soli 11 anni, apprende i fondamenti dell’arte pittorica, partendo dalle basi. Viene istruito alla preparazione dei colori e della tavola ed anche alle nuove tecniche apprese dalla pittura fiamminga. Queste prevedevano l’uso dell’olio come legante nella pittura, per raggiungere nuovi effetti di trasparenza della pittura. Si esercita inoltre nel disegno, che diventerà un suo mezzo di espressione caratterizzante.

Madonna con il bambino, 1496-97 ca, Casa Santi, Urbino

Cominciamo il nostro viaggio proprio da Urbino e vediamo insieme quella che è considerata la sua prima opera, una Madonna con il bambino, conservata nella casa natale dell’artista marchigiano. L’opera è datata al 1496 circa, ed inizialmente era stata attribuita al padre, forse anche per la tenera età, avendo Raffaello al tempo solo 13 anni. Il tema rappresentato sarà più e più volte riproposto dal pittore nel corso della sua produzione pittorica arrivando a soluzioni sempre nuove. Nel dipinto in questione vediamo la Madonna, raffigurata entro una nicchia, nell’atto di leggere da un leggìo posto di fronte a lei mentre tiene in braccio il Bambino. Di fronte a noi una scena di profonda dolcezza materna, riconoscibile sia nell’espressione tenera della madre, che in quella tranquilla e rassicurante del bambino, che si abbandona fiducioso nell’abbraccio materno. L’opera è attribuibile a Raffaello anche per la resa dei volumi delle figure e per l’uso sapiente dei colori vividi soprattutto nelle vesti della Vergine.

 

Sposalizio della Vergine, 1504, Pinacoteca di Brera, Milano

Raffaello realizza lo “Sposalizio della Vergine” per la chiesa di San Francesco di Città di Castello ma l’opera è oggi conservata a Milano presso la Pinacoteca di Brera.

L’opera segna la fine del periodo urbinate e il completamento della formazione presso la bottega di Pietro Perugino. Raffaello dimostra di aver pienamente acquisito la lezione del maestro e si appresta velocemente a superarla. Lo “sposalizio della Vergine” ricalca lo schema della “Consegna delle chiavi” del Perugino nella cappella Sistina in Vaticano, ma il modo in cui Raffaello ripropone il tema ci dimostra come sia già arrivato ad esiti più innovativi.

Raffaello raffigura il momento culminante della cerimonia, lo scambio dell’anello tra Maria e Giuseppe al cospetto del sacerdote.

“In San Francesco ancora della medesima città fece in una tavoletta lo Sposalizio di Nostra Donna, nel quale espressamente si conosce l’augumento della virtù di Raffaello venire con finezza assotigliando e passando la maniera di Pietro. In questa opera è tirato un tempio in prospettiva con tanto amore che è cosa mirabile a vedere le difficultà che egli in tale esercizio andava cercando.” Giorgio Vasari, Vita di Rafael da Urbino

La composizione delle due opere è la stessa: la scena si svolge in primo piano su una grande piazza e sullo sfondo si staglia un tempio a pianta centrale. Raffaello però è andato oltre, perché il tempio non ha soltanto un valore simbolico ma anche un valore plastico e per questo diventa il perno prospettico della composizione. Il tempio è il centro da cui si dipartono le linee della pavimentazione della piazza che costituiscono un prolungamento immaginario dei raggi della pianta dell’edificio. In questo modo le figure in primo piano non sono posizionate casualmente ma seguendo la circonferenza del tempio. A differenza del Perugino che aveva disposto le figure per piani paralleli, due semplici file di figure per intenderci, Raffaello invece dispone le figure seguendo due curve. In questo modo si ha una maggiore sensazione di uno spazio tridimensionale, costruito da e con le figure.

La composizione ruota in maniera armoniosa intorno al tempio, ricordo degli studi di architettura svolti ad Urbino, ed è costruita secondo precisi rapporti proporzionali. Pienamente rispettato è un principio fondamentale per Raffaello, l’armonia tra le parti.

Madonna del cardellino, 1507 ca, Firenze, Galleria degli Uffizi

Nel 1504 Raffaello si stabilisce a Firenze, affascinato dalla città che in quel momento è l’indiscussa capitale artistica italiana. Qui ha modo di entrare in contatto con i due più grandi artisti del tempo, Leonardo e Michelangelo. Raffaello è convinto che un’artista si formi attraverso lo studio delle opere dei maestri, e non guardando direttamente la natura. Studia affondo l’opera dei due maestri e capisce che la via giusta da perseguire non è l’una ne l’altra, ma il compromesso fra le due. Da una parte c’è lo studio del colore e degli effetti della luce di Leonardo, dall’altra c’è lo studio dei volumi e del dinamismo delle figure di Michelangelo. Raffaello vuole scoprire le leggi armoniche che regolano la bellezza della natura la quale deriva, secondo la sua idea, dall’equilibrio di tutte le parti.

La “Madonna del cardellino” rappresenta una prima sintesi delle maniere dei maestri operata da Raffaello. La composizione delle figure riflette uno schema piramidale, con la Vergine al centro e ai suoi piedi Gesù Bambino e San Giovannino, mentre sullo sfondo si staglia un paesaggio naturale. La resa volumetrica delle figure è evidenziata dalla luce che le colpisce definendole. Degna di attenzione è la posa del Gesù Bambino, con il corpo nell’atto di volgersi all’indietro verso l’altro bambino che gli sta porgendo un uccellino, un cardellino appunto. Il corpo segue la testa e comincia una rotazione che coinvolge tutto il corpo. A fare da contrappunto a questi volumi michelangioleschi c’è sullo sfondo un paesaggio che sfuma verso l’orizzonte con trasparenze tipicamente leonardesche.

Lo studio attento che Raffaello ha fatto dei maestri comincia qui a delineare una sua personale cifra stilistica, non assimilabile ne a l’una ne all’altra. Gli elementi più significativi di ciascun autore vengono sintetizzate nel proprio stile. In questo modo non sono sterili citazioni ma sono state invece integrate in maniera armonica.

“Ebbe anco Raffaello amicizia grandissima con Lorenzo Nasi, al quale avendo preso donna in que’ giorni, dipinse un quadro, nel quale fece fra le gambe alla Nostra Donna un Putto, al quale un San Giovannino tutto lieto porge un uccello con molta festa e piacere dell’uno e dell’altro; e nell’attitudine d’ambi due una certa simplicità puerile e tutta amorevole, oltre che sono tanto ben coloriti e con tanta diligenza condotti che più tosto paiono di carne viva che lavorati di colori, e disegnò parimente la Nostra Donna, [che] ha un’aria veramente piena di grazia e di divinità, et insomma il piano, i paesi e tutto il resto dell’opera è bellissimo.” Giorgio Vasari

Trasporto del Cristo morto (Deposizione Baglioni), 1507, Roma, Galleria Borghese

Il dipinto viene commissionato a Raffaello da Atalante Baglioni, per la cappella di famiglia in San Francesco al Prato di Perugia, in memoria del figlio morto per mano di una congiura.

Il tema doveva essere inizialmente quello del compianto sul Cristo morto, come ci testimoniano alcuni disegni preparatori, ma viene poi convertito in quello del trasporto del corpo di Cristo al sepolcro. Questo infatti permette a Raffaello di raggiungere una maggiore tensione dinamica della composizione e un maggior trasporto emotivo. Evidente è il cambiamento di tendenza rispetto alle opere precedenti: dalle statiche rappresentazioni religiose passa ad una rappresentazione storica in movimento.

La scena sembra divisa tra i due gruppi di figure: sulle sinistra ci sono gli uomini che trasportano il corpo di Cristo, sulle destra invece ci sono le donne addolorate che sorreggono la Vergine svenuta dal dolore per la morte del figlio. Come hanno suggerito alcuni critici, il quadro sembra quasi l’unione di due scene distinte, una Deposizione e uno Svenimento della Madonna. L’unione tra i due momenti è costituito dalla figura del portatore. L’uomo al centro è come il fulcro nel quale convergono le forze opposte che animano la composizione e creano una tensione al tempo stesso fisica ed emotiva. È la figura dominante ma al tempo stesso anche la meno espressiva, quasi estranea al pathos della composizione.

Chiari sono gli influssi degli studi sulle figure michelangiolesche: il Cristo morto è un’evidente riferimento alla Pietà vaticana, mentre la donna che sorregge Maria dolente è una chiara riflessione sulla torsione quasi innaturale della Vergine nel Tondo Doni. Raffaello sembra lasciare per un  attimo da parte gli studi luministici di Leonardo sulla natura per concentrarsi sul dinamismo dei corpi, sul pathos drammatico delle espressioni, sui colori brillanti. Forte è anche la citazione dell’arte classica, affondo studiata.

“fu chiamato Rafaello a Perugia, et egli vi andò, e quivi in San Francesco dipinse una tavola d’un Cristo morto che portano a sotterrare, la quale fu tenuta divinissima. E condusse questo lavoro con tanta freschezza e sí fatto amore, che a vederlo par fatto or ora; et imaginossi nel componimento di questa opera il dolore che hanno i parenti stretti nel riporre il corpo di quella persona piú cara, nella quale veramente consista il bene, l’onore e l’utile della loro famiglia. E certamente chi considera la diligenzia, l’amore, l’arte e la grazia di questa opera, giustamente si maraviglia, perché ella fa stupire ognuno, con la dolcezza dell’arie nelle figure, la bellezza de’ panni e la bontà in ogni cosa.” Giorgio Vasari

Le stanze vaticane

Stanza della segnatura, 1508-11, Palazzi Vaticani

Raffaello viene chiamato a Roma da papa Giulio II per dipingere alcune stanze del palazzo pontificio alle quali stavano già lavorando altri artisti. il pontefice rimane talmente stupito dalla bravura del giovane venuto da Firenze che liquidò subito gli altri artisti e lasciò l’intero incarico al solo Raffaello.

Si tratta degli appartamenti abitati in precedenza da papa Niccolò V che Giulio II voleva far riallestire per sé. La prima stanza a cui si dedica Raffaello è la cosiddetta Stanza della Segnatura, la quale ospitava la biblioteca privata del pontefice. La stanza è chiamata della Segnatura perché per un breve periodo alla metà del Cinquecento qui si riuniva il tribunale supremo della curia, il tribunale ecclesiastico della Segnatura gratiae.

Raffaello crea qui un complesso programma decorativo che vede da una parte la Filosofia, intesa come la Verità razionale, rappresentata nell’affresco della Scuola di Atene, e dall’altra la Teologia, ossia la Verità rivelata, rappresentata nella Disputa sul Sacramento. Il programma iconografico è molto complesso ma Raffaello riesce a realizzarlo con una chiarezza cristallina.

Nella disputa la composizione è articolata in tre cerchi concentrici di figure il cui asse centrale allinea l’Eucarestia con la Santissima Trinità, i due massimi misteri della fede. il primo cerchio, intorno all’Eucarestia, è costituito dai terrestri esponenti della Chiesa militante. A questo fanno da contrappunto i due cerchi superiori, il primo con la Chiesa Trionfante, stretta intorno alla Trinità, e quello superiore con il coro di angeli. Mentre nel registro superiore ritroviamo la formazione umbra di Raffaello, volutamente più statica per meglio esprimerne la solennità, il registro inferiore rivela la modernità dei suoi studi sul movimento e le espressioni delle figure.

L’altro grande affresco della Stanza è la Scuola di Atene, espressione della Filosofia. La scena è dominata da una grande struttura architettonica che contiene la scena, forse una riproposizione del progetto che in quegli anni Bramante sta sviluppando per la basilica di San Pietro.

La scena è dominata dalle due figure centrali: Aristotele, che con la mano indica la terra, e Platone, che invece indica il cielo con l’indice. Con una semplicità quasi disarmante Raffaello ha saputo sintetizzare il pensiero dei due filosofi attraverso due soli gesti. Aristotele e Platone sono poi circondati da una moltitudine di filosofi che rappresentano la filosofia dall’età antica fino al presente. I gruppi sono disposti secondo uno schema che dà un ritmo preciso alla composizione, in armonia con l’architettura imponente, creando una scena teatrale. I personaggi costituiscono anche uno studio dal vero: oltre al suo autoritratto all’estrema destra infatti, è rappresentato anche Michelangelo, la figura solitaria al centro nei panni di Eraclito, mentre dalla parte opposta, nei panni di un Euclide intento nello spiegare un teorema, troviamo Bramante. Il ritratto di Michelangelo è stato aggiunto in un secondo tempo e costituisce un vero e proprio omaggio al maestro in seguito al parziale svelamento degli affreschi della cappella Sistina che stava realizzando proprio in quegli stessi anni.

L’opera di Raffaello sarà inevitabilmente influenzata in maniera profonda dall’opera di Michelangelo e le sue figure acquisteranno una nuova monumentalità.

Stanza di Eliodoro, 1511-14, Palazzi Vaticani

Per la Stanza di Eliodoro Raffaello sviluppa ancora una volta un complesso programma decorativo che risponde perfettamente alla necessità del pontefice di far fronte alla complessa situazione politica che si stava vivendo. L’alleanza pontificia sta subendo la riscossa francese e il re di Francia vuole minare l’autorità papale con attacchi di carattere dottrinario. Per questo motivo Giulio II decide di far affrescare la stanza con episodi storici che si sono risolti grazie all’intervento divino in favore della Chiesa di Roma. Il programma decorativo assume così un carattere propagandistico e politico molto forte, di monito per gli oppositori.

Il primo episodio rappresentato, da cui prende il nome l’intera stanza, è la Cacciata di Eliodoro dal tempio. Raffaello si ispira all’episodio che vede Eliodoro recarsi a Gerusalemme, per conto del re Seleuco IV, per rubare il tesoro custodito nel tempio. I testi sacri raccontano che sarebbe stato cacciato dal tempio da una figura misteriosa, forse un angelo, che arrivato a cavallo lo calpestò. La lunetta va’ letta da sinistra verso destra: papa Giulio II assiste all’episodio che si sta svolgendo davanti a lui. L’episodio biblico prende avvio al centro, dove c’è il sacerdote Ania che sta invocando l’aiuto divino per cacciare l’usurpatore dal tempio, incorniciato in una grandiosa architettura con uno scorcio prospettico. Eliodoro è disteso per terra in primo piano nel momento in cui il cavallo sta per colpirlo. È una scena molto concitata, con figure monumentali e altamente espressive. Evidente è l’effetto che ha avuto su Raffaello la visione delle figure michelangiolesche della cappella Sistina. Papa Giulio II assiste alla cacciata dell’usurpatore, che allude chiaramente all’inviolabilità dei possessi della Chiesa. Raffaello riafferma la sua concezione della storia come exemplum da cui imparare e a cui ispirarsi.

Nell’affresco con la Messa di Bolsena Raffaello rappresenta un miracolo che richiama nuovamente il tema propagandistico voluto da Giulio II. L’episodio narra di un sacerdote che, avendo dubitato della transustanziazione, aveva visto sgorgare sangue dall’ostia che stava consacrando. Il pontefice vuole così ribadire l’assoluta autorità della dottrina ecclesiastica, della quale non è ammissibile dubitare. La lunetta è nettamente bipartita: a sinistra l’avvenimento miracoloso, con i partecipanti alla messa sconvolti da ciò che sta accadendo, a destra il pontefice in preghiera e i membri del suo seguito, caratterizzati da una calma e impassibilità quasi innaturali. Di nuovo, come nella Cacciata di Eliodoro, Raffaello colloca un episodio storico nel presente: il miracolo accade di fronte al papa testimone. Con un espediente architettonico Raffaello riesce a superare l’asimmetria della lunetta a causa della finestra spostata verso sinistra (se ci fate caso le scale sulla destra sono più sporgenti rispetto a quelle di sinistra che, al contrario, si intravedono soltanto. Questo per allungare il piano rialzato dove poggiano i personaggi principali, il pontefice e il sacerdote, e renderlo così perfettamente centrale).

Un altro affresco presente nella stanza raffigura la Liberazione di San Pietro dal carcere. Anche in questo caso la scena è tripartita: al centro, sopra la finestra, l’angelo entra nella cella e rompe le catene che imprigionano Pietro, sulla destra il santo e il suo liberatore fuori dal carcere e sulla sinistra il risveglio delle guardie. La rappresentazione è caratterizzata da un’ambientazione notturna cupa nella quale spicca con una forza dirompente la luce irradiata dall’angelo. Ritorna qui il colorismo delle origini appreso da Piero della Francesca, rinnovato però dagli studi condotti sulla pittura fiamminga e veneta.

Stanza dell’Incendio di Borgo, 1514, Palazzi Vaticani

L’ultima stanza a cui si dedica direttamente Raffaello è quella dominata dalla lunetta con l’Incendio di Borgo. Il clima politico è cambiato come lo è il pontefice, Leone X è infatti succeduto a Giulio II e in questa stanza domina il tema dell’esaltazione di quelli che considera i suoi ideali predecessori, Leone III e Leone IV. La stanza veniva utilizzata come camera da pranzo pontificale.

Raffaello rappresenta, enfatizzandone i toni in senso drammatico, l’episodio raccontato nei Liber Pontificalis, durante il quale papa Leone IV, grazie alla sua benedizione, impedì all’incendio che stava distruggendo le abitazioni del borgo di arrivare fino alla basilica di San Pietro. L’intento è quello di accomunare l’opera salvifica di Leone IV a quella di Leone X, il quale vuole presentarsi al popolo cristiano come colui che aveva messo fine alla guerra con la Francia.

Osserviamo la lunetta. In primo piano si trova il popolo colpito dall’incendio raffigurato nel tentativo concitato di mettersi in salvo. Separato da architetture antiche che formano una sorta di quinta teatrale vediamo in lontananza una loggia da cui si affaccia il pontefice, riconoscibile dal copricapo, che impartisce la benedizione per salvare la basilica di San Pietro, intravedibile sullo sfondo con la sua antica facciata decorata da mosaici. Il primo piano e lo sfondo sono direttamente collegati dalla donna con la veste gialla, inginocchiata al centro della scena, con le braccia protese verso il pontefice. Raffaello crea anche una connessione tra la scena rappresentata e il piano reale dello spettatore tramite la figura della portatrice di acqua, in piedi sulla destra. La donna sembra quasi estranea alla narrazione, proprio come noi che guardiamo la lunetta.

I gruppi in primo piano rappresentano degli esempi di nobili sentimenti: la donna affacciata dall’edificio sulla sinistra che antepone la salvezza del figlio in fasce alla sua, simbolo dell’amore materno, mentre sulla sinistra c’è un esempio di pietas filiale, dato dall’uomo che mette in salvo il padre portandolo sulle spalle. Questo è un‘evidente richiamo all’episodio mitico che vede protagonista Enea il quale, dopo la caduta di Troia, porta via il padre Anchise sulle spalle, accompagnato dal figlio Ascanio.

La rappresentazione di architetture classiche insieme al richiamo all’episodio mitico sono chiare testimonianze dell’attenzione che Raffaello ha riguardo lo studio dell’antico e l’influenza che questo ha sulle sue opere. Lo studio della statuaria classica e delle forme michelangiolesche dà vita alle sorprendenti figure degli ignudi che animano la scena. Il tono tragico-eroico della narrazione è enfatizzato proprio da queste figure che cercano di scampare all’incendio, animando la scena di un forte patos. Caratterizzante è l’uomo che cerca di calarsi dalla parete di sinistra per uscire dall’edificio in fiamme: l’uomo è animato da una tensione palpabile in ogni parte del suo corpo, dall’espressione terrorizzata del volto ad ogni singolo muscolo contratto.

La stanza dell’Incendio di Borgo risulta così maggiormente celebrativa rispetto alle altre due precedenti, anche grazie all’uso dell’espediente della quinta teatrale. Inoltre risulta molto più enfatizzato il tono tragico ed eroico della narrazione. Accostando l’Incendio di Borgo alle lunette della prima stanza, come ad esempio la Scuola di Atene, risulta evidente quanto sia cambiato lo stile di Raffaello in soli sei anni.

Raffaello è molto impegnato in questi anni, sta lavorando infatti ai cartoni preparatori per gli arazzi della Cappella Sistina. Questo fa si che sia molto maggiore l’intervento della sua bottega, che si anima di personalità sempre più autonome.

Trionfo di Galatea, Villa Farnesina, 1511-12

Raffaello, oltre ad essere molto attivo nelle committenze papali, era anche richiesto da committenti privati. Tra il 1511 e il 1512, dopo aver finito di lavorare alla Stanza della Segnatura e prima di dedicarsi alla Stanza di Eliodoro, è plausibile collocare la realizzazione di un affresco nella villa che il banchiere Agostino Chigi si sta facendo realizzare dall’architetto Baldassarre Peruzzi in via della Lungara. La Galatea segna, stilisticamente, un momento di passaggio tra le due stanze: Raffaello si dirige verso la costruzione di figure monumentali e dinamiche, profondamente colpito dall’opera di Michelangelo.

Il programma iconografico dell’intera villa Farnesina è improntato alla ripresa dell’antico e della mitologia classica. Raffaello realizza il Trionfo di Galatea in una loggia che per questo verrà definita Loggia di Galatea. Il mito, tratto dalle opere di Ovidio, è raffigurato seguendo la descrizione che ne aveva fatto Angelo Poliziano, intellettuale alla corte di Lorenzo il Magnifico: “ Due formosi delfini un carro tirano/ sovr’esso è Galatea che ‘l fren corregge..”. L’esattezza rispetto alle fonti letterarie testimoniano la contiguità della sensibilità di Raffaello a quella degli umanisti della corte papale.

Galatea primeggia al centro dell’affresco sopra una conchiglia trainata da due delfini. La ninfa è circondata da tritoni e nereidi, le divinità marine, e amorini che animano il cielo sopra di loro. Colore dominante è l’azzurro del cielo e del mare sul quale si adagiano gli incarnati rosei delle figure e su tutti spicca per contrasto il rosso pompeiano del manto della ninfa Galatea. Questa risulta una reminiscenza dell’osservazione diretta della pittura romana della Domus Aurea. Le imponenti figure che si torcono e si agitano in mare appaiono una evidente riflessione di Raffaello non solo sui modelli della statuaria classica ma soprattutto sulle figure michelangiolesche della Cappella Sistina. La scena si sviluppa in un clima di festosa vivacità, dominato dall’elegante sensualità di Galatea.

Il Trionfo di Galatea  si allontana dalle tematiche religiose e drammatiche delle stanze vaticane ma esprime bene il forte richiamo della cultura classica e mitologica in Raffaello.

La Fornarina, 1520 circa, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica, Palazzo Barberini

Raffaello aveva anche straordinarie doti di ritrattista, riuscendo a rappresentare con grande forza comunicativa sia caratteristiche fisionomiche che psicologiche.  Uno dei ritratti più famosi da lui realizzati è anche quello che nasconde un alone di mistero.

La Fornarina, una delle ultime opere di Raffaello, custodito a Palazzo Barberini, presso la Galleria Nazionale d’Arte Antica, rappresenta una donna bellissima, una giovane Venere. Dietro questo sguardo dolcemente sensuale si cela forse una donna realmente esistita? L’ipotesi più accreditata è che si tratti di Margherita Luti, figlia di un fornaio di Trastevere e per questo chiamata Fornarina. Non si hanno notizie riguardo un possibile committente dell’opera e questo ha fatto pensare che Raffaello abbia dipinto per sé il quadro. Il ritratto come Margherita sarebbe così la donna di cui Raffaello era innamorato, per la quale avrebbe perso la testa camminando per le strade di Trastevere, vedendola affacciata al suo balcone. Margherita diventa la musa ispiratrice di Raffaello, che decide di ritrarla come una Venere, prendendo a modello la statuaria classica. La giovane donna è nuda, vestita soltanto di un velo trasparente, un copricapo e un monile intorno al braccio dove si legge Raphael Urbinas, firma del pittore e simbolo di vincolo amoroso. A fare da sfondo al ritratto ci sono un cespuglio di mirto e un ramo di melo cotogno, simboli della fertilità da sempre legati alla dea Venere.

La figura della donna è colpita da una luce che la illumina, mettendo in risalto il suo incarnato angelico e le trasparenze del velo con il quale pudicamente sta cercando di coprirsi. In questo modo risalta in maniera netta rispetto al fondo molto scuro. Come in molti altri ritratti, Raffaello rappresenta il soggetto di tre quarti, posa che dona un maggiore senso di profondità  al ritratto. La Fornarina si pone a metà tra la sfera umana e quella divina: così simile ad una dea eppure così terrena con la sua sensualità.

Villa Madama, 1518, Roma

Straordinarie anche se poco conosciute sono le doti di Raffaello come architetto. Il Sanzio si dedica soprattutto nell’ultimo periodo della sua vita a progetti architettonici ma il suo interesse è sempre stato evidente. Ripensando alle sue opere, infatti, troviamo spesso impianti architettonici, soprattutto classici, realizzati in quadri e affreschi. Segno questo dell’approfondito studio dell’architettura classica portato avanti da Raffaello per tutta la vita.

È il 1514 quando viene nominato architetto capo della fabbrica di San Pietro, commissione che lo impegnerà non poco, e poco dopo il banchiere Agostino Chigi, per il quale aveva già lavorato nella villa Farnesina, gli affida l’incarico di realizzare per la sua famiglia una cappella in Santa Maria del Popolo. Commissioni queste che rimangono tutte incompiute e terminate dagli allievi della sua scuola. Stessa sorte avrà purtroppo il grandioso progetto per la Villa Madama, commissionatagli nel 1518 dal cardinale Giulio de’ Medici, futuro papa Clemente VII.

Il cardinale aveva acquistato il terreno alle pendici del Monte Mario per avere una villa suburbana per sé e la sua famiglia dove poter trascorrere periodi di riposo rimanendo vicinissimo a Roma. Raffaello progetta una villa grandiosa, ispirandosi direttamente alle ville della Roma antica e soprattutto alla Domus Aurea di Nerone, da poco scoperta. I disegni del Sanzio che ci sono arrivati testimoniano la grandiosità del progetto. La villa avrebbe dovuto essere provvista, oltreché di appartamenti invernali ed estivi, di ogni sorta di ambiente necessario alle attività della villa e allo svago. A partire da un grande cortile circolare, la villa si sarebbe sviluppata lungo due ali laterali e sarebbe stata provvista anche di un teatro vitruviano, di un ninfeo e di un ippodromo. La splendida villa avrebbe dominato Roma dal parco alle pendici del Monte Mario con loggiati e giardini a terrazze. Idea di Raffaello era quella di creare un edificio che si inserisse in un rapporto di continuità con la natura che lo circondava.

Raffaello realizza il progetto coniugando la conoscenza dei modelli classici, dati dallo studio delle rovine antiche e dei trattati di architettura, con inevitabili influssi contemporanei, come il progetto del Belvedere Vaticano di Bramante di poco precedente.

Purtroppo la morte precoce non permise al giovane Raffaello di portare a termine il progetto, che fu affidato ad Antonio da Sangallo il Giovane, il quale però non riuscì a portare a termine il progetto originario a causa della morte del committente. Nonostante l’incompiutezza dell’opera, Villa Madama costituirà un modello di studio imprescindibile per gli artisti successivi, considerata come una villa antica grazie al perfetto equilibrio trovato tra le grandiose proporzione e la complessità dell’impianto.

La villa è oggi inaccessibile al pubblico essendo destinata alle attività istituzionali del Ministero degli Affari Esteri.

Trasfigurazione, 1518-1520, Roma, Pinacoteca Vaticana

Nel 1516 il cardinale Giulio de’ Medici commissiona a Raffaello e a Sebastiano del Piombo due pale d’altare, al primo una Trasfigurazione e al secondo la Resurrezione di Lazzaro, per la cattedrale di Narbonne, la sua sede vescovile. Nonostante il confronto incalzante con il giovane e talentuoso artista veneziano, due anni dopo la commissione Raffaello ancora non aveva iniziato l’opera. Probabilmente però fu proprio la rivalità che portò il Sanzio a tali prodigiosi esiti compositivi che aumentano inoltre il pathos della rappresentazione. L’opera risulta il compimento del percorso intrapreso da Raffaello che ha portato ad una modifica delle iconografie delle pale d’altare. La rigida simmetria viene soppiantata da composizioni complesse, ricche di figure in movimento.
Raffaello decide di raffigurare insieme due episodi anche se non direttamente collegati nei Vangeli sinottici. Nella parte alta della pala, in una composizione lineare e luministica, troviamo la Trasfigurazione, ossia l’apparizione di Cristo nella sua veste divina sul monte Tabor tra i profeti Mosè e Elia. Nella parte bassa della pala troviamo invece, tra una moltitudine concitata di uomini, l’episodio della guarigione di un fanciullo indemoniato, raffigurato come stesse avvenendo alle pendici del monte Tabor. La guarigione del fanciullo sembra in questo modo la conseguenza salvifica dell’epifania di Cristo.
Raffaello riesce a connettere in una perfetta unità di tempo ed azione i due episodi, aumentando enormemente il pathos della raffigurazione. Una figura cattura la nostra attenzione: la donna di schiena al centro della scena inginocchiata che sta indicando il bambino. È la figura che unisce i due momenti della narrazione, è la donna che ci dice che la guarigione è avvenuta grazie a Cristo: è la personificazione della Fede. Senza di lei, senza la fede in Dio, il miracolo non sarebbe avvenuto.
Il pittore di Urbino non riuscì a completare l’opera, la quale venne esposta per il confronto ancora incompiuta. Nonostante ciò, la bellezza della pala era tale che il cardine de’ Medici decise di tenerla per se e di inviare a Narbonne una copia.
La Trasfigurazione è considerata l’ultima opera di Raffaello, tanto che venne esposta vicino al suo feretro, come ci raccontano le parole di Giorgio Vasari.
La morte colpì improvvisamente Raffaello il 6 aprile del 1520 e il divin pittore venne sepolto al Pantheon.
“Poi confesso e contrito finì il corso della sua vita il giorno medesimo che nacque, che fu il venerdì santo d’anni XXXVII, l’anima del quale è da credere che come di sue virtù ha abbellito il mondo, così abbia di sé medesima adorno il cielo. Gli misero alla morte al capo nella sala, ove lavorava, la tavola della Trasfigurazione che aveva finita per il cardinale de’ Medici, la quale opera nel vedere il corpo morto e quella viva, faceva scoppiare l’anima di dolore a ogni uno che quivi guardava” Giorgio Vasari

  • Claudia Pucinischi

 

 

 

 

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